Premessa di Andrea Canevaro

La sordità e i diversi contesti:

mai prigionieri di una sola cultura  


di Andrea Canevaro



Questa riflessione, sicuramente incompiuta, nasce sullo sfond­o in cui si muove la storia dei sordi: quello dello scontro tra oralisti e gestualisti. Inizio raccontando brevemente la storia della conquista dell'America del Nord (conquista e non scoperta), avvenuta secondo due modalità. Una era quella che hanno usato i francofoni e l'altra quella degli anglofoni. Sem­brerà che io le presenti come una buona e l'altra no: un po' è così. Ma non è tutto.

I francesi sono entrati in un territorio dove non avevano nessun riferimento preciso, come singoli personaggi. Certo, sono arrivati ad avere dei punti di riferimento nei porti, arri­vando via mare, ma poi il vastissimo paese è stato percorso da quelli che venivano chiamati i "couriers des bois": quelli che percorrevano i boschi. In lingua francese c'è una distinzione che oggi non ha più tanto senso, ma che ne aveva uno grande allo­ra: le bois, il bosco, era di tutti, la forét era del re.

C'era già allora un'indicazione di un territorio che non era di proprietà del re, ma di tutti e il singolo che vi si avventurava faceva affidamen­to sulla possibilità, per lui necessaria e quindi positiva, di incontrare una popolazione che lo potesse aiutare, perché doveva viaggiare leggero, procedere con poco carico ed essere aiutato dalle persone che incontrava.

Questo ha fatto sì che i couriers des bois, singoli personaggi legati al commercio (un'esplorazione interessata, non certamente altruistica), dovessero affidarsi alle popolazioni indigene, a quelli che potevano indicare loro le risorse per sopravvive­re. Passavano gli inverni nei villaggi indiani e qui si mescolavano i miti e le storie fantastiche francesi e indiane; così certi miti indiani era­no già un impasto con le parole francesi; sembrava agli antropologi di dover scoprire qualcosa di universale mentre scoprivano, senza saperlo, un'altra composizione mista di culture. E quando tornavano indietro, questi couriers des bois riportavano notizie positive; raccontavano di popoli che avevano delle capacità di accoglienza, di orga­nizzazione, delle qualità.

II modo in cui ha proceduto la parte inglese era totalmente diverso: innanzi tutto ha utilizzato i cor­pi di spedizione militare, da cui sono tornate indietro notizie totalmente diverse: il paese era in gran parte disabitato (cosa non vera), o abitato da poche per­sone difficili da accettare come umani, con usi bestiali e quindi, nel migliore dei casi, da addomesti­care e civilizzare, oppure da decimare e distruggere.

Nei nostri universi giovanili, nelle nostre immagini, la nuova frontiera ha alimentato molti racconti d'avventura e films western e noi siamo sempre stati convinti che ci fosse buona parte d'avventura romanzata, ma con un fondo di veri­tà, la verità dei corpi di spedizione. Cioè la verità, su cui siamo stati educati, di pensare a blocchi culturali.

Molte voci si sono arrivate dal dopoguerra in avanti per denunciare gli errori e le violenze di una concezione euro­centrica che metteva la cultura europea al centro del mon­do, considerando tutti gli altri come minori.

Ma in questa storia ci sono altri due aspetti, che sono la tra­sformazione e la perdita delle informazioni. La storia che ho raccontato è affascinante e triste: significa avere sciupato irrimediabilmente quello che poteva essere l'incontro di culture, ma insegna anche che, più che con il nome delle singole cultu­re, la realtà si può chiamare con una parola che forse non è abituale, il meticciato, cioè il sincretismo, il mettere insieme diversi elementi di diverse culture.

Una lettura divertente di un divulgatore americano descrive come si sveglia un cittadino medio del centro America, che ritiene di vivere la cultura americana e che essa esista come altra cosa da quella vietnamita, egiziana, ecc?.. Dal risveglio, tutti gli oggetti e le usanze che utilizza nella sua quotidianità più banale, sono affiancati da una parentesi che fa notare come ciascun elemento viene da un'altra cultura, e come pratica­mente non esista una cultura americana. Così potremmo fare la stessa cosa, scoprendo l'impossibilità che esista oggi una cul­tura italiana, e più nello specifico, una cultura lombarda, emilia­na, pugliese ..., mentre esistono gli intrecci e le composizioni che provengono da diverse culture: un grande scambio, che compone in ciascuno di noi il "prodotto", se è permesso dire così, dell'incontro di tante culture. E noi non lo sappiamo.

Lo avvertiamo, però, quando subiamo una violenza. Molte delle violenze che subiamo sono nel segno della riduzione della nostra pluralità. Dato che abbiamo una identità composta da diversi elementi, molte violenze sono riconducibili al fatto che qualcuno, che ha più forza magari, o che tenta di avere più for­za, ci toglie tanti elementi e ci vuole ridurre ad un solo ele­mento.

Uno scrittore, un intellettuale morto nel 1978, che si chia­mava con due nomi, un nome con cui ha scritto, Jean Amery, in realtà Hans Mayer, era un giovane austriaco, viennese, intellet­tuale, insegnante, marito. Era tutto questo, ed era, anche, ebreo. Al momento delle leggi razziali tutte le sue caratteristiche sono state annullate, ed è diventato solo ebreo. Noi leggiamo questa storia, collegata ai campi di sterminio e al genocidio, ma anche se non avesse un esito cruento, già ci sarebbero le vio­lenze più dure nei confronti di un singolo personaggio e di tan­te altre singole persone che hanno dovuto, violentemente, rinunciare alla pluralità della loro identità.

Questa riflessione mi sembra importante, perché, nelle vicende del popolo dei sordi, non possiamo e non dobbiamo privilegiare la dizione di una cultura dei sordi, perchè anche nella cultura di un sordo esiste lo stesso intreccio, la stessa composizione di meticciato.

Ma non c'è solo questo elemento esteriore. C'è qual­cosa di molto più pro­fondo, che è la com­posizione delle diverse culture nella vita singola di ciascu­no di noi. E qui sta la parte propositiva del mio intervento, che è quella della attenzione all'identità plurale. Quindi l'attenzione a riconoscere in ciascuno di noi, e naturalmente in chi ci cresce vicino, in chi è giovane, in un ragazzo e in una ragazza, la possibilità di essere con una identità al plurale e non solo al singolare.

Questa parte più propositiva ha bisogno di fare i conti con una definizione di cultura che va precisata. Credo che sia utile ave­re presente che si parla di cultura almeno in due modi. Da una parte si può parlare di una cultura che viene definita endemica. La parola endemica è di composizione greca, deriva dalle paro­le en e demos: "nel popolo". Quindi è la cultura di un popolo, per esempio il popolo magrebino, ugandese ... Ma non è una definizione molto precisa, perchè il popolo algerino e quello ugandese sono composti da tanti altri popoli. Questo tipo di cultura sta accanto a quella che si può definire, invece, epidermi­ca. Una cultura che non è dentro la storia, ma che arriva sulla mia storia, sulla mia pelle. Oggi è forse quasi più importante la cultura epidermica della cultura endemica.

La cultura epidermica è quella di cui spes­so parliamo, è la cultura aziendale, della televisione o di una singola trasmissione televisiva. Di queste culture noi siamo ora spettatori esterni, ora protagonisti interni e le nostre giornate entrano ed escono da queste culture, non ci si fer­mano dentro.

La cultura endemica invece è quella da cui proveniamo, e forse non ci restiamo. Riconoscere l'identità significa anche permettere alle persone di acquisire altre appartenenze e di non essere pri­gioniere della cultura endemica. E il com­pito delle istituzioni pedagogiche è pro­prio quello di costruire una mediazione che permetta a ciascuno di prendere le distanze giuste dalla cultura di prove­nienza, per riappropriarsene in una com­posizione originale.

Dentro questa composizione ci possono essere anche altri elementi culturali. Nessuno è prigioniero di una cultura. La prigionia in una cultura crea il ghetto, crea una situazione che può essere apparentemente lussuosa, ricca, o anche invece, povera, misera, miserevole.

L'apertura significa la possibilità di acquisire elementi da altre culture e di comporre quello che uno studioso che a me è sembrato molto interessante, ha chiamato il "mantello di Arlecchino". Cioè la possibilità che ci sia nella nostra identità una composizione, dei piccoli furti che facciamo da altre cul­ture. Sono furti se non riconosciamo di aver preso qualcosa; sono invece arricchimenti reciproci se riconosciamo di aver preso qualcosa ad altri e di poter dare loro qualcosa.

Ancora due brevi riflessioni. Una riguarda la storia dell'educazione dei sordi e quella figura così importante che è stato l'Abate De I'Epée. Quando nel 1700 De I'Epee si è impegnato per l'educazione di giovani sordi, quello di cui era più preoc­cupato era l'accesso alla comunicazione che permette il rico­noscimento. Allora, da religioso, doveva preoccuparsi dell'ac­cesso ai sacramenti, per cui la comunicazione diventava impor­tante perchè un bambino o una bambina sorda potesse acce­dere alla confessione, all'eucarestia e poi al matrimonio.

La necessità era quella di consentire una comunicazione. Tra chi? Tra sordi? Non solo. C'era la necessità di avere una comunica­zione tra sordi, ma anche una comunicazione tra culture diverse.

Se vogliamo parlare di una cultura dei sordi la necessità è che questa cultura non si riconosca come monolitica, come mono­blocco, ma abbia degli interscambi e costruisca il meticciato che dicevo prima, con la cultura dei parlanti e degli udenti.

Nello stesso periodo, nel 1731, una bambina selvaggia (cioé abbandonata e probabilmente con insufficienza mentale) ven­ne ritrovata in una zona della Marna: si chiamò, fu chiamata Mademoiselle Le Blanc.

Fu educata, acquisì alcuni elementi dell'educazione; i suoi educa­tori ne furono quindi soddisfatti, ma rimase­ro sempre con un grande - generoso, ma a mio avviso sbagliato, rimpian­to, quello di non poter conoscere a quale popolo appartenesse questa bambina. L'idea di fondo era che ci fossero delle culture capaci di integrare.

È come se, nei confronti di uno dei nostri bambini con un deficit, quale che sia, noi cercassimo nel mondo il paese dove tutti possono avere lo stesso deficit e quindi dove lui potesse essere integrato.

Questo è l'uso della parola integrazione con l'idea che ci sia una Cultura, una sola, che permette l'integrazione.

Mentre c'è una cultura dell'integrazione, ci sono culture integrate, culture meticciate, ed è questo che ci apre delle spe­ranze, e ci rende capaci di proporre ai nostri bambini una iden­tità plurale.

La necessità era quella di consentire una comunicazione. Tra chi? Tra sordi? Non solo. C'era la necessità di avere una comunicazione tra sordi, ma anche una comunicazione tra culture diverse.